アロキン, “E S P E R“
2019
Released on Pagan Fries label
Format: CD / mp3
Location: Greece/Italy
Tracks: 14
Genres: Vaporwave, Ambient, Electro Acoustics
Artwork by Akis Karanos
Review by Drei:
Quello del recensore è un lavoro duro, costretto a cambiare coi tempi. Prendiamo il mio più che trentennale lavoro per il Buscadero: passata è l’epoca in cui “oh stomella” oppure “ma uooomooo…” e un voto al seguito bastavano per recensire rispettivamente Nevermind dei Nirvana e ogni disco dei Nofx. Erano altri tempi. Tempi più semplici. Tempi migliori.
Che ne sapeva la gente della “Critica” con la C maiuscola, quella dei professoroni all’università. Qui al Buscadero si scriveva da proletari per proletari. E un semplice “porco dio!” di approvazione bastava per far capire agli operai che quel disco li avrebbe fatti stare Bene, questo si con la B maiuscola.
Se lo chiedete a me è stato Youtube a rovinare tutto. Partito dalla grezza semplicità di persone normali che in cameretta recensivano con la pancia i dischi dei Megadeath, è diventata ora il cavallo di Troia che ha democratizzato la Critica: quella delle interpretazioni e dei significati nascosti, dei video di ore su ogni giro di basso o testo, dei parallelismi tra la musica e la vita dell’artista.
E anche il buscadero si è dovuto adeguare alla modernità, forzando la mano dei suoi recensori.
Ho voluto aprire con questa premessa per dire subito agli hipster borghesucci che accorreranno in edicola coi soldi fintamente contati per sapere tutto sul nuovo disco del Boari, e che sicuramente si lamenteranno in seguito sui social della recensione accusandola di “esoterismo” e di “inventarsi cose” (sic), che la colpa dello stato della critica è solo loro, e non possono lamentarsene.
Che dire dunque di Esper, la nuova fatica del Boari?
Diremo che l’incipit ci porta in territori estremamente diversi da quelli del lavoro precedente, verità che accompagna tutto l’LP. Passati sono gli entusiasmi sul potenziale vitale dell’Asia: Pechino sfrutta gli operai e crea bolle immobiliari anche senza l’aiuto dello zio Sam, il Vietnam fa affari con il paese che l’ha raso al suolo, Aung San Suu Kyi massacra i Rohingya, Giappone e Corea del sud sono servi della NATO e il Laos fa schifo.
È il momento del riflusso, del ritiro in sé per meditare su errori e futuro.
È un crooner rallentatissimo accompagnato da una funerea marcetta jazzata che apre infatti il disco. E ricordandoci delle radici italo-americane del Boari è chiaro che quel crooner rappresenta tale comunità tutta, ormai vecchia, grottesca e ancorata al passato, e a cui l’artista non riesce a perdonare il praticamente unanime appoggio a Trump. Un vero schiaffo per rimarcare la propria alterità.
L’atmosfera funerea di Dawn after the flood ci pone subito davanti ad una domanda fondamentale: sta il Boari ricucendo il rapporto con la tradizione Europea? A sentire gli iniziali cori gregoriani (sintetici, non preoccupatevi adoratori della modernità) sembrerebbe di sì, lasciando il pensiero correre a generiche cattedrali. Ma è un trucco: presto arrivano staffilate di monocordi sintetizzatori che trasformano tutto in qualcosa che non sfigurerebbe nella colonna sonora di Ghost in the Shell.
Isles of Faith continua la tradizione di mettere i potenziali singoli come terza traccia in un disco. Ancora una volta l’inizio riesce a fregare uno scafato recensore come il sottoscritto, con un pianoforte elettrico che mi fa aspettare la voce di Thom Yorke come se fosse cosa certa, per continuare con una cangiante varietà di sintetizzatori, organi e vocalizzi. Si merita la stessa recensione che lasciai a Mellon Collie: “beh, dio porco”.
Arriva poi il proverbiale brano dal titolo in puro asiatico, ma ormai le nostre orecchie non ci possono più ingannare: il Boari, disilluso, ha lasciato l’Asia per tornare all’ovile, la gloriosa tradizione classica Europea. Ne sono prova il lirismo e gli strazianti archi di questa quarta traccia, che potrebbe appartenere a Samuel Barber. Suscita emozioni che un asiatico sarebbe semplicemente impossibilitato a provare. Dirò di più, vi è una amara ironia nel fatto che possa richiamare proprio un brano della colonna sonora di Platoon e non (come sarebbe stato un tempo nella produzione artistica boariana) un brano per i rivoluzionari vietnamiti.
Dopo lo straniante intermezzo di SOL (interessante notare come sia struttura che minutaggio richiamino The Siren dei Rachels) arriva la freddezza lucida di Sleepless in Nakagin Capsule Tower, primo vero riferimento all’Asia dall’inizio del disco. La domanda è ovvia: è in questa veglia orribile in un simbolo dell’abbandono giapponese della propria tradizione che Boari ha maturato il suo abbandono delle illusioni pan-asiatiche? Sembra di vedere il suo animo, diviso ma ormai certo della decisione da prendere, in questi suoni glaciali.
E dopo…dopo arriva addirittura un brano nella sua lingua madre, ormai bistrattata dal mondo intero, l’italiano: “Non piangerò più (la morte è la premessa della vita)”.
Sicuramente Boari sarà in giro con i suoi amici artisti a dire che no, in realtà l’Asia è ancora al centro dei suoi pensieri, a giustificare il titolo con scuse tipo “eh vez guarda che in realtà è il bushido” o altre cazzate, ma chi sa ascoltare e leggere sa la verità.
Verità suggerita anche dal brano successivo, An Imitation of Joy, che presenta un featuring con il noto suprematista bianko kanadese N3rgul. E qui la recensione deve diventare per forza un j’accuse: un conto è abbandonare le speranze di un unione dei popoli asiatici contro lo strapotere occidentale, un altro è accasarsi con i peggiori fasci dell’occidente. E riconoscere il nord America come l’imitation of joy che è, ma trovarcisi bene comunque, come denotato dai quieti e bucolici suoni della traccia, la prima veramente presa bene del disco. Boari si è trasformato in un Jim Carrey consapevole ma nonostante tutto acquiescente al Truman Show.
Ma non dobbiamo lasciare che l’odio politico ci annebbi. Boari è comunque un artista coi controcazzi, e Winter of Cicada ce lo dimostra: una delicata ma frenetica e cangiante combinazione di mallets, batteria e flauti che in egual misura energizza e culla.
E naturalmente in tempi di crisi ideologica, è umano volersi ritirare nelle rarefatte atmosfere protettive di un letterale grembo materno, come Womb ammette senza vergogna. Oppure, come la traccia successiva (dal lunghissimo nome e suoni disperati) lascia intendere, sentirsi lontani dal mondo, come i poli dell’inaccessibilità del titolo. Uno organetto alla Doors, triste prima poi schizofrenico e mai domo, restituisce perfettamente la sensazione di spaesamento ideologico. Ottima prova compositiva del Boari.
Vorremmo tutti poterci godere in pace la sua musica, ma lui stesso non vuole lasciarci stare: nonostante l’atmosfera scanzonata, These New Puritans nasconde una terribile accusa, ovviamente, al nuovo fermento rivoluzionario statunitense, bollato come political correctness o sjw da orribili neocon dai quali Boari prende irresponsabilmente il linguaggio per accusarli di puritanesimo. It’s a new low for Boari, passato dall’accusa ai MAGA italo-americani alla vicinanza culturale con l’alt-right nel giro di poche tracce. Incredibile!
È una grande confusione che risiede nella mente tormentata del nostro artista preferito, e Rise of the Empty City è quasi un grido di aiuto. Una triste litania pianistica giustapposta alle voci della sua ultima, disperata trasferta giapponese, a sentirsi solo dove era un tempo a casa. Veramente toccante.
Ma siamo al termine di questo viaggio intenso e sofferto, e Like You dimostra quanto è profonda la crisi di questo artista, portandolo ad autoflagellarsi per aver fallito nell’avvicinarsi ai suoi defunti ideali. Non ci è dato sapere a quale figura aspirasse, ma il confronto evidentemente lo devasta, e lo porta a scrivere una nenia rarefatta e cupa, quasi appartenente al trip-hop più visionario.
Come recensore non posso che apprezzare il percorso puramente artistico di Boari, e anche se la preoccupazione per la sua deriva politica mi porterebbe a una stroncatura severa, il disco è migliore del precedente e questo conta davvero.
VOTO: 9
DROGA CONSIGLIATA: Special K
PEZZI PREFERITI: Isles of Faith, quello col titolo asiatico, winter of cicada, quella col nome lungo
Traded childhood memories for corporate warmth.
Nostalgic about discontinued produce, consumerist wanna be from 3rd tier economy.
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